La Costituzione entra in fabbrica.
L’11 ottobre 1952 il segretario generale Cgil Giuseppe Di Vittorio propone lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”. Ma la legge 300 arriverà solo nel maggio 1970
Nel secondo dopoguerra è Giuseppe Di Vittorio il primo a parlare esplicitamente della necessità di uno Statuto dei diritti che portasse la Costituzione dentro le fabbriche e nei luoghi di lavoro. “I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica Italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano”, scriveva sull’Unità dell’11 ottobre 1952 il segretario della Cgil: “Nell’interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche (…) Io voglio proporre a questo Congresso una idea che avevo deciso di presentare al prossimo congresso della Cgil (…) facciamo lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo Statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda”.
“La proposta da me annunciata al recente Congresso dei sindacati chimici – specificava Di Vittorio il 25 ottobre successivo – di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il Congresso della Camera del lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri soprattutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione”.
Prosegue il segretario generale Cgil: “La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana”.
Giuseppe Di Vittorio evidenzia che “se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile – e agissero in conseguenza – la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere. Il fatto è, invece, che numerosi padroni si comportano nei confronti dei propri dipendenti come se la Costituzione non esistesse. Si direbbe che la parte più retriva e reazionaria del padronato (la quale non ha mai approvato la Costituzione, ma l’ha subita, a suo tempo, solo per timore del «peggio»), mentre trama per sopprimerla, l’abolisce, intanto, all’interno delle aziende. L’opinione pubblica ignora, forse, che in numerose fabbriche s’è instaurato un regime d’intimidazione e di terrore di tipo fascista che umilia e offende i lavoratori”.
Il leader sindacale aggiungeva nella sua relazione al Congresso del 1952: “Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro, abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica (…) Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone”.
Di Vittorio così concludeva: “È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di ‘Statuto’ che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne”.
Nel giugno 1954 si tiene a Milano il convegno della Società Umanitaria sulle “condizioni del lavoratore dell’impresa industriale”. Vi partecipano sindacalisti della Cgil, della Cisl, della Uil, le Acli, giuristi, imprenditori, parlamentari. Di Vittorio ripropone la necessità della Statuto proposto.
L’anno successivo la legge n. 96/55 istituisce una Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia. La Commissione conclude i lavori rivendicando una legislazione di applicazione dei diritti costituzionali nei luoghi di lavoro e la regolamentazione legislativa delle Commissioni interne.
La Cgil organizza intanto a Milano una Conferenza per la difesa dei diritti sindacali e delle libertà democratiche e rilancia l’esigenza di un intervento legislativo per la tutela della libertà soggettiva di opinione politica dei lavoratori, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne, il divieto dei licenziamenti arbitrari.
Nel febbraio 1957 Di Vittorio propone in Parlamento il disegno di legge n. 2726 sulla regolamentazione del licenziamento individuale, prevedendone la nullità in caso di ingiustificato motivo.
Dopo i fatti del giugno-luglio 1960 e dopo la prima esperienza in Italia di un governo di centro-sinistra, nel dicembre 1963 si ha la formazione del primo governo presieduto da Aldo Moro. Nel discorso alle Camere, il presidente del Consiglio dichiara il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno Statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Intanto Gino Giugni, incaricato direttamente da Pietro Nenni di redigere con il giurista Tamburrano tre disegni di legge su Commissioni interne, giusta causa e diritti sindacali, inizia la sua collaborazione con il governo ed entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge sui licenziamenti.
Il 15 luglio 1966 il Parlamento approva la legge 604 sui licenziamenti, che prevede la giusta causa e l’obbligo di un indennizzo monetario, non quello della riassunzione, in caso di licenziamento ingiustificato. Probabilmente l’iter della legge avrebbe avuto un andamento molto più accidentato, se nel frattempo non fossero scoppiati nel Paese il Sessantotto e il Sessantanove.
In questo contesto di straordinaria mobilitazione collettiva e di eccezionale fermento culturale, il dibattito sullo Statuto si accende. Il 4 gennaio 1969, parlando ad Avola, Brodolini annuncia un disegno di legge per varare lo Statuto del sindacato nell’impresa che garantisca i diritti della persona nei posti di lavoro. A tale scopo chiama Gino Giugni a presiedere una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali.
Il 9 aprile la polizia spara ancora a Battipaglia mentre è in corso la protesta per la chiusura del locale tabacchificio: Giacomo Brodolini, gravemente malato (morirà a breve), forza i tempi con una febbrile attività.
Intanto la Commissione Lavoro del Senato prepara e il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge da presentare in Aula, integrando il testo base di Brodolini e Giugni, con molti articoli ripresi dai disegni legge del Pci e dello Psiup, rafforzando la parte relativa ai diritti individuali dei lavoratori. In particolare viene introdotto l’art.18 che sancisce la giusta causa nel licenziamento individuale, attribuisce all’imprenditore l’onere della prova di fronte al giudice, impone – per le aziende con più di 15 dipendenti – l’obbligo di reintegro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo. Non passa, invece, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne e, tanto meno, dei nuovi organismi di base (i consigli di fabbrica) che si stanno formando nelle lotte aziendali.
L’11 dicembre il disegno di legge del governo è approvato in prima lettura dal Senato. Votano a favore i partiti di centro-sinistra e i liberali, si astengono – con opposte motivazioni – Msi da una parte, Pci, Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra.
Il giorno dopo, 12 dicembre, esplodono le bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano: è la strage di Piazza Fontana.
Il 14 maggio 1970 la Camera dei deputati, con 217 voti favorevoli, 10 contrari e 125 astenuti, approva definitivamente la legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del ministro Donat Cattin, tutti gli emendamenti (tranne quelli del Pli) sono stati ritirati.
Il 20 maggio il testo è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e la legge 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e delle attività sindacali nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento – entra in vigore.
Affermerà Luciano Lama, segretario generale della Cgil: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata”.